Annamaria sta seguendo un master in Applied Behavior Analysis (ABA).
Per i non addetti ai lavori vuol dire che…?
…che mi occupo di disturbi del neurosviluppo, in particolare dell’autismo. Si tratta di un ambito della scienza che punta a modificare i comportamenti durante l’età evolutiva, affinché non siano disfunzionali ma socialmente utili. Con una serie di procedure, contribuiamo a migliorare la qualità di vita di bambini e adolescenti con disabilità.
Ti faccio un esempio: un bambino con autismo potrebbe non avere un contatto oculare ben modulato. Difficilmente può guardarti negli occhi mentre gli parli o molto raramente si girerà quando lo chiamerai per nome, e questo può comportare per loro isolamento o scherno, con conseguenze negative sulla loro accettazione sociale. In questo caso l’ABA (Applied Behavior Analysis) propone un programma mirato nel quale, ad ogni contatto oculare adeguato, avviene la consegna di un rinforzatore (che può essere, ad esempio, il suo giocattolo preferito).
Il tuo campo di studi è l’emblema del principio di inclusione.
Senza dubbio. L’obbiettivo è quello di garantire a tutti le stesse opportunità. L’importante è rispettare il concetto di individualità: i mezzi per raggiungere gli stessi obiettivi non sono uguali per tutti.
Il ruolo della famiglia nell'affrontare la disabilità sembra essere cruciale. Tu che ci lavori, puoi confermarlo?
Sì, totalmente. Il carico di una diagnosi inevitabilmente si poggia anche sulle spalle dei genitori. Molti dei miei bambini e ragazzi hanno diagnosi che necessitano tanta terapia e ogni presa in carico prevede l’accoglienza del suo nucleo familiare. Nella maggior parte dei casi, i genitori fanno del loro meglio per garantire ai propri figli un supporto adeguato. Ma le spese sia emotive che economiche fanno sentire presto il loro peso e questo si riflette sul loro stile di vita. Queste famiglie condurranno mai una vita “ordinaria”? Nella maggior parte dei casi…no.
Già, e questo costituisce un dato di fatto. Forse anche la terminologia errata o ambigua contribuisce al solidificarsi delle differenziazioni sociali…
Per certi versi sì. Parole come ‘atipico’, ‘diverso’ o ‘fuori dalla norma’ non sono sinonimi di peggiore, anzi: ogni giorno realizzo che la disabilità è una mera caratteristica di una persona, una tra tante altre, e la rendono degna di essere alla pari di tutti. Io sono alta un metro e mezzo, ciò non mi impedisce di prendere una scala per raggiungere il libro nello scaffale in alto. Certo, bisogna pazientare. I cambiamenti positivi arrivano spesso dopo ore di duro lavoro. Ma per me godere dei progressi quotidiani e osservare i risultati di un programma è una sfida quotidiana ricca di soddisfazioni.
Già, immagino! Che bello, sono contenta di sentire il tuo entusiasmo. Credo che a livello culturale dovremmo riconsiderare il concetto di ‘difetto’ come anche quello di ‘compassione’. Dietro questa parola spesso avverto un senso di pietà che non è piacevole, né socialmente accettato.
Grazie per aver contribuito a questo Scream of Consciousness!
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